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"Chi riceve di più, riceve per conto di altri; non è né più grande, né migliore di un altro: ha solo maggiori responsabilità. Deve servire di più. Vivere per servire"
(Hélder Câmara - Arcivescovo della Chiesa cattolica)

sabato 28 luglio 2012

Videosorveglianza dei luoghi di lavoro - Diritti dei lavoratori sempre più compressi, si gioca sulle parole per negarli


Sab. 28.07.2012 - Dopo l'art.18, anche l'art.4 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970) appare oggi sotto attacco. Esso sancisce al primo comma che "E' vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori.", il secondo comma prevede possibili tassative eccezioni: "Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti.".


---Una recente sentenza della 3° Sezione penale della Corte di Cassazione (n. 22611, 17 aprile 11 giugno 2012) pare disarticolare anche questo sistema di tutela, con argomentazioni solo apparentemente logiche, che nascondono in realtà l'insidia di sottacere quale siano i reali rapporti di forza (e spesso anche di conoscenza) tra un lavoratore subordinato ed il proprio datore di lavoro. Errore non commesso, viceversa, dal legislatore dello Statuto dei lavoratori, dotato di una sensibilità specifica al tema, ormai sconosciuta ai nostri giorni, tutti proiettati come siamo a discorrere di "mercato", "spread", "economia", dimentichi di una visione politica della Società, dimentichi della dignità dell'uomo (soprattutto se economicamente povero).
---Riporto a seguire il testo della sentenza in questione (con evidenziatura gialla dei tratti salienti), seguita da un mio breve commento "tecnico".

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza 17 aprile – 11 giugno 2012, n. 22611
(Presidente Squassoni – Relatore Mulliri)
Ritenuto in fatto
1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato -
La ricorrente è stata giudicata responsabile della violazione dell’art. 4 L. 300/70 (c.d. Statuto dei lavoratori) per avere, in qualità di legale rappresentante della soc. yyy, fatto installare un sistema di videosorveglianza composta da quattro telecamere due delle quali inquadranti direttamente postazioni di lavoro fisse occupate da dipendenti.
2. Motivi del ricorso -
Avverso tale decisione, l’imputata, tramite difensore, ha proposto appello – convertito in ricorso dalla Corte d’appello – deducendo:
1) insussistenza della fattispecie criminosa contestata, sia nel suo elemento oggettivo che in quello soggettivo. In particolare, si fa notare che il teste A. (ispettore del lavoro), espressamente interrogato sul punto, ha escluso che, dagli accertamenti svolti, fosse emersa prova dell’esistenza di un sistema di videosorveglianza (funzionante o disattivato) che consentisse anche potenzialmente, di sorvegliare i dipendenti. L’unico dato certo è relativo all’esistenza delle due telecamere “puntate” su altrettante postazioni di lavoro.
Pertanto, pur essendo sufficiente la mera potenzialità di controllo, è altrettanto vero che deve esservi un impianto idoneo a creare il pericolo.
In ogni caso, è stata accertata la esistenza di un apposito documento autorizzativo sottoscritto da tutti i dipendenti dal quale non si può prescindere essendo esso espressione della volontà dei lavoratori e del loro assenso alla esistenza di quell’impianto.
Sul piano soggettivo, vale lo stesso ragionamento e, cioè, che non si può ipotizzare che il datore di lavoro abbia dolosamente preordinato di controllare illecitamente i propri dipendenti se ad ognuno di essi aveva fatto firmare, prima della installazione, una liberatoria di consenso ed, in ogni caso, il luogo di lavoro (v. dep. A.) era tappezzato di artelli che indicavano la presenza della videosorveglianza.
Tutto ciò è tanto vero che lo stesso P.M. di udienza aveva chiesto l’assoluzione della signora B., sia pure ex art. 530 comma. 2. c.p.p.;
2) erronea applicazione della pena. Si fa, infatti, notare che a pena pecuniaria per il reato contestato va da un minimo di 154 € ad un massimo di 1549 € e che il giudice ha, invece, preso le mosse da una pena base di 1800 € superiore a quel a edittale e, comunque, con il riconoscimento delle attenuanti generiche, si è ingiustificatamente attestato su una pena di 1200 € che va verso il massimo.
La ricorrente conclude invocando l’annullamento della sentenza impugnata.
Considerato in diritto
3. Motivi della decisione -
Il primo motivo di ricorso è fondato ed assorbente.
L’inquadramento del fatto in esame non può che avvenire prendendo come parametro di riferimento la fattispecie normativa. Sotto questo aspetto, deve ricordarsi, perciò, che l’art. 4 L. 300/70, nel secondo comma, precisa che impianti di controllo in ambito lavorativo possono essere installati soltanto «previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste con la commissione interna».
Ciò posto, non può essere ignorato il dato obiettivo – ed indiscusso – che, nel caso che occupa, era stato acquisito l’assenso di tutti i dipendenti attraverso la sottoscrizione da parte loro di un documento esplicito.
Orbene, se è vero che non si trattava né di autorizzazione della RSU né di quella di una “commissione interna”, logica vuole che il più contenga il meno sì che non può essere negata validità ad un consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori e non soltanto da una loro rappresentanza. Del resto, non risultando esservi disposizioni di alcun tipo che disciplinino l’acquisizione del consenso, un diverso opinare, in un caso come quello in esame, avrebbe un taglio di un formalismo estremo tale da contrastare con la logica.
Ed infatti, l’interpretazione della norma deve sempre avvenire avendo presente la finalità che essa intende perseguire.
Se è vero – come è innegabile – che la disposizione di cui all’art. 4 intende tutelare i lavoratori contro forme subdole di controllo della loro attività da parte del datore di lavoro e che tale rischio viene escluso in presenza di un consenso di organismi di categoria rappresentativi (RSU o commissione interna), a fortiori, tale consenso deve essere considerato validamente prestato quando promani proprio da tutti i dipendenti.
Siffatto modo di pensare non è, del resto, neppure in contrasto con la enunciazione di questa S.C. (Sez. III, 15.12.06, Fischnaller, Rv. 236077) – secondo cui integrano il reato di cui agli artt. 4 e 38 L. 300/70 anche gli impianti audiovisivi non occulti essendo sufficiente la semplice idoneità del controllo a distanza dei lavoratori – perché, infatti, anche in tale pronunzia, sì è sottolineato che ciò vale sempre che avvenga «senza accordo con le rappresentanze sindacali»
Come a ribadire, cioè, che l’esistenza di un consenso validamente prestato da parte di chi sia titolare del bene protetto, esclude la integrazione dell’illecito.
A tale stregua, pertanto, l’evocazione – nella decisione impugnata – del principio giurisprudenziale appena citato risulta non pertinente e legittima il convincimento che il giudice di merito abbia dato della norma una interpretazione eccessivamente formale e meccanicistica limitandosi a constatare l’assenza del consenso delle RSU o di una commissione interna ed affermando, pertanto, l’equazione che ciò dava automaticamente luogo alla infrazione contestata. In tal modo, però, egli ha ignorato il dato obiettivo (peraltro di provenienza non sospetta, visto che sono stati gli stessi ispettori del lavoro a riportarlo) che l’odierna ricorrente aveva acquisito il consenso di tutti i dipendenti.
Così facendo, la decisione impugnata è censurabile per non avere interpretato correttamente la norma sotto il profilo oggettivo ed analoga censura può essere mossa anche sotto il profilo psichico una volta che si consideri che la piena consapevolezza dei lavoratori è risultata provata, non solo dal documento da loro sottoscritto, ma anche dal fatto che, come riferito dal teste A., «la B. aveva fatto comunque installare dei cartelli che segnalavano la presenza del sistema di video sorveglianza”.
In ogni caso, però, l’assenza dell’elemento oggettivo è assorbente per una declaratoria di annullamento senza rinvio della decisione impugnata per insussistenza del fatto.
P.Q.M.
visti gli artt. 615 e ss. c.p.p.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste


---L'argomentazione appare del tutto discosta dall’esatta interpretazione della norma, dell’art.4 L.300/1970. È assolutamente chiaro, lampante, come il legislatore abbia voluto frapporre, tra la determinazione del datore di lavoro e quella delle maestranze a lui sottoposte, figure di garanzia “indipendenti” ed “informate”, quali le RSA o la Commissione interna (presenze che si riscontrano solo nelle realtà imprenditoriali maggiori), in difetto l’Ispettorato del lavoro.
---Manifesto appare l’intento del legislatore di voler impedire che siano i singoli lavoratori ad essere chiamati dall’imprenditore a pronunciarsi su detta delicatissima materia, in una situazione che sarebbe, è ovvio, di non piena libertà di espressione.
---Seguendo il ragionamento dei Giudici di Cassazione, una ditta con un solo dipendente (magari un giovane apprendista), acquisitone il consenso, avrebbe il 100% delle maestranze d’accordo con l’installazione dell’impianto di videoripresa e registrazione, non necessiterebbe quindi di alcun altro tipo di autorizzazione, con buona pace del legislatore e di quel povero lavoratore che, in tutta libertà, ha detto si al proprio datore di lavoro!!


---A riguardo, con la medesima ratio di tutela della parte più debole del rapporto, di cui alla normativa in parola, vedasi l’art.2113 c.c., che rende valide le rinunzie e le transazioni dei lavoratori, solo nel caso in cui gli stessi siano adeguatamente assistiti.
--Art. 2113 c.c.
Rinunzie e transazioni
Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide.
L'impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima.
Le rinunzie e le transazioni di cui ai commi precedenti possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà.
Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile.

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