la libertà non ha appartenenza, è conoscenza, è rispetto per gli altri e per sé

"Chi riceve di più, riceve per conto di altri; non è né più grande, né migliore di un altro: ha solo maggiori responsabilità. Deve servire di più. Vivere per servire"
(Hélder Câmara - Arcivescovo della Chiesa cattolica)

sabato 24 ottobre 2009

La risposta di don Farinella alle lettere di “avvertimento” dei card. Bertone e Bagnasco



Sab. 24.10.2009 - Riporto, a seguire, le due lettere (da "Il Cittadino") dei Cardinali Tarciso Bertone (16.10.2009) e Angelo Bagnasco (18.10.2009), seguite dalla premessa e risposta di Don Paolo Farinella (22.10.2009 - Dal sito di MicroMega).

" Dal Vaticano, 16 ottobre 2009
Rev.do don Farinella, dopo un tempo di dopo un periodo di silenzio e di paziente sopportazione, sento in prima persona il dovere di rispondere alle tue aspre critiche contro di me e contro il mio ministero a fianco del Santo Padre Benedetto XVI.
Non commento le tue esternazioni, tanto sono marcate da accuse e interpretazioni infondate. Ti ricordo solamente che come sacerdoti possiamo e dobbiamo lavorare con cuore puro, senza odio e senza preconcetti ideologici, ma con la forza dell'annuncio evangelico, per il bene della Chiesa e di ogni persona umana: io lo faccio ora con una responsabilità di carattere universale, approfittando di tutte le forme istituzionali e pastorali che mi sono offerte (ti mando le parole - A pagina 2 n. d. r.- che ho pronunciato in occasione dell'inaugurazione della Mostra "Il Potere e la Grazia. I Santi patroni d'Europa" ). xxx

Mi addolora il tuo comportamento, anche perché nei tuoi confronti ho sempre agito con benevolenza durante il mio episcopato genovese; ti ho nominato Amministratore parrocchiale della parrocchia personale e gentilizia di S. Maria Immacolata e San Torpete e nei nostri colloqui fraterni ho raccolto le tue difficoltà personali cercando di aiutarti. Che cosa, in realtà, ti fa agire in questo modo offensivo verso di me, verso la Chiesa che è in Genova, il suo presbiterio e il suo Pastore?
Chiediamo l'aiuto del Signore per discernere e purificare le nostre intenzioni e per dare il buon esempio, come sacerdoti e seguaci di Cristo, che hanno a cuore la comunione ecclesiale.
Ti saluto augurandoti il bene di cui hai bisogno.
† Tarcisio Card. Bertone "

" Genova 18 ottobre 2009
Reverendo Don Paolo,
accompagno la accompagno la lettera che S.Em.za il Card. Tarcisio Bertone, Segretario di Stato Vaticano, ti ha inviato e che viene pubblicata per suo esplicito desiderio, essendo le tue dichiarazioni verso di lui e verso il suo ministero note a tutti in quanto da te rese pubbliche.
Mi spiace non poco, come ho avuto occasione di dirti nei ripetuti colloqui che abbiamo avuto anche di recente, il comportamento che da tempo hai assunto verso la persona e l'operato del Cardinale Bertone, che hai conosciuto personalmente quando era Arcivescovo di Genova e del quale tutti hanno apprezzato la paternità sacerdotale e lo zelo pastorale.
La facilità di giudicare tutto e tutti, senza peraltro conoscere molti aspetti delle questioni e attribuendo gratuitamente intenzioni a chi è da te giudicato, oltre a non portare nulla di costruttivo, è un atteggiamento che suscita in molti - cristiani e non - non poco stupore e disappunto. Ti rinnovo la mia vicinanza di Padre e Pastore in comunione di preghiera al Signore Gesù, unico Salvatore.
† Angelo Card. Bagnasco "

Di Don Paolo Farinella
" Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, ha chiesto e ottenuto la pubblicazione sul settimanale cattolico genovese «Il Cittadino» della sua risposta a due mie lettere a lui indirizzate (11-09 e 08-10 2009). La lettera è accompagnata da una seconda, scritta dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e, non possiamo dimenticare, anche presidente della Cei. Lo stesso giorno della pubblicazione ho inviato ai due cardinali la mia risposta, chiedendo che venga pubblicata sullo stesso settimanale. Non credo di pensare male, se dico che non la pubblicheranno mai. Lo hanno fatto già altre volte. Per questo motivo rendo la pubblica come risposta pacata, con una premessa previa.

Premessa

Si narra nel vangelo di Luca (23,12) che Erode e Pilato erano «nemici» e dopo essersi palleggiato Gesù come uno «stravagante», divennero «amici». Le mie prese pubbliche sulle attività «politiche» del Segretario di Stato e del Presidente della Cei (sottolineo «politiche», non «pastorali» o «dottrinali») hanno avuto come primo effetto quello di avvicinare i due cardinali che, sul caso Boffo/Feltri, sembravano essersi divaricati. E’ evidente che nella Chiesa io lavoro per la comunione e non per dividere.

Il fatto che due cardinali si compattino per rispondere «ufficialmente» (carta con tanto di stemma del cardinale Bertone), a mio parere sta a significare che ho toccato nervi scoperti che fanno male, tanto male che i due porporati non rispondono minimamente agli interrogativi che io pongo, ma esprimono il loro disappunto perché non sanno cosa rispondere e forse hanno informazioni più dirette di quelle che posso avere io (non ho servizi segreti a mio servizio) della gravità e della profondità del dissenso all’interno della Chiesa che si configura sempre più come uno scisma sommerso e, oggi, non più tanto silenzioso.

Nel 2009 sono usciti, senza scalpore, ma con notevole impatto, due libri, editi ambedue da «Il Segno dei Gabrielli, San Pietro in Cariano (VR)» che dovrebbero essere un campanello di allarme per la gerarchia di ciò che sta accadendo nel fiume carsico del mondo cattolico: Piero Cappelli Lo scisma silenzioso. Dalla casta clericale alla profezia della fede e J. M. Castillo, La Chiesa e i diritti umani. Chi vive «sulla strada» vede con sgomento lo scollamento sempre più largo tra la gerarchia cattolica e la vita reale dei credenti che ormai vivono una propria vita con una religiosità personalizzata. Su questo specifico punto, mi riservo di essere più puntuale in una lettera riservata al mio vescovo perché possa valutare e riflettere sulla gravità del momento.

Il cardinale Bagnasco parla delle mie prese di posizione come di «atteggiamento che suscita in molti – cristiani e non – non poco stupore e disappunto». Mi piacerebbe che fosse più esplicito su questo punto, dicendo «chi, perché e quanti» sono i «disappuntati». Ricevo migliaia di lettere e solo quattro contestazioni, di cui due sulle mie posizioni nei confronti dei militari morti in Afghanistan (la documentazione è a disposizione, non tanto per la quantità, quanto per i contenuti e le motivazioni). Nessuno può accusarmi di essere malato di protagonismo perché ho rifiutato in questi giorni intervisti a tv locali e nazionali, e quelle che appaiono sono improvvisate. In internet circolano solo un paio di mie foto e non da me divulgate. Non cerco consenso e non sono alla testa di alcun movimento. Testimonio solo per me stesso, da me stesso. Quando ho da dire qualcosa lo comunico a circa un migliaio di persone con le quali sono in contatto. Il resto viene da solo.

Mi è parso di leggere nelle due lettere, «un velato avvertimento», quasi un avviso ad un successivo provvedimento disciplinare nei miei confronti. Poiché sono prete cattolico per vocazione e per scelta libera e non per convenienza, dichiaro pubblicamente che accetterò qualunque provvedimento inerente la «dottrina e la morale e la disciplina canonica», gli unici campi su cui i vescovi hanno competenza su di me e che io riconosco. Lo devono fare però nella debita forma, prevista dal Diritto. I cardinali Bertone e Bagnasco si occupano di politica e di politici e intervengono spesso identificandosi con la «Chiesa» tout-court compiendo un illecito dal punto di vista teologico perché la Chiesa è molto più ampia della gerarchia che è solo una componente di essa. La materia su sui stiamo discutendo appartiene alle cose fallibili e alle vicende di questo mondo, sulle quali l’opinione dei cardinali si pone sullo stesso piano di quella di chiunque altro. Essi infatti non possono invocare il «magistero» perché nelle lettere a Bertone e/o a Bagnasco non tocco argomenti di «dottrina».

Sono prete cattolico e apostolico, non sono romano perché la «romanità» non è una caratteristica che rientra tra le quattro espresse nel «simbolo niceno-costantinopolitano». Mi avvalgo della mia libertà di valutare ciò che accade nel mio tempo e di leggerlo alla luce del vangelo e del magistero definito. Possono piacere o non piacere il contenuto e il tono, ma nessuno può accusarmi di eresia o di altro inerente la fede. La domanda è le cose che dico sono vere o false? Sono parzialmente vere o parzialmente false? In genere si trincera dietro «il tono» chi non ha argomenti da contrapporre.

Prego Dio che l’annuncio del vangelo nella sua purezza prenda il sopravvento sulla diplomazia o i «doveri istituzionali» che possono oscurare, e di fatto oscurano, il ministero sacerdotale che vescovi preti dovremmo sempre perseguire. Resta il fatto che la presenza del cardinale Bertone a quella mostra, senza una parola «altra» ha suscitato in moltissimi «– cristiani e non – non poco stupore e disappunto». Anzi: scandalo.

RISPOSTA MIA AL CARDINALE BERTONE E AL CARDINALE BAGNASCO

[Spedita via e-mail personale il giorno 21 ottobre 2009, ore 12,43 prima di renderla pubblica]

Sig. Cardinale Tarcisio Bertone
Segretario di Stato
16120 Città del Vaticano – Roma

e p. c.

Sig. Card. Angelo Bagnasco
Arcivescovo di Genova
P.za Matteotti, 4
16123 Genova
Genova, 21 ottobre 2009

Sig. Cardinale,

la ringrazio per la sua risposta alla mia lettera «aperta» dell’8 ottobre 2009 e le rispondo volentieri, sperando anche che «Il Cittadino», settimanale cattolico della diocesi di Genova, voglia ospitarmi non dico con la stessa evidenza riservata a lei, su sua esplicita richiesta, ma almeno analoga.

Per prima cosa è meglio sgombrare il terreno delle questioni personali che rischiano di confondere e sulle quali lei fa parecchie confusioni. E’ vero che lei mi ha nominato «Amministratore parrocchiale della parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete», che dal 1995 non è più «parrocchia personale e gentilizia», come erroneamente lei dice ancora, nonostante le scrissi a suo tempo, documenti alla mano, perché la famiglia proprietaria vi ha rinunciato dinnanzi al notaio, cedendola alla diocesi. Lei però non dice tutta la verità sul «come» si è arrivati a questa nomina e non certo per la sua «benevolenza nei miei confronti durante il mio episcopato genovese».

Dopo il mio rientro da Gerusalemme, rimasi ospite nella canonica di San Torpete (da oltre venti anni chiusa al pubblico perché inagibile), ma senza alcun incarico pastorale e per due anni andai a mendicare una chiesa dove celebrare la Messa, nel suo più totale disinteresse. Quando la misura mi parve colma, venni da lei che mi propose di nominarmi «parroco» di San Torpete, parrocchia senza parrocchiani e senza territorio, ormai a parziale restauro terminato, dandomi il mandato di farne un centro culturale. La settimana dopo, testimone l’ausiliare mons. Luigi Palletti, lei si rimangiò la nomina per intervenute difficoltà e mi propose di fare il cappellano di una comunità di sei suore ultraottuagenarie in via al capo di Santa Chiara. Accettai e andai a visitare il posto accompagnato dal vescovo ausiliare e dal vicario dei religiosi, padre Ghilardi Cesare. Splendida vista sul mare di Boccadasse, ma non se ne fece nulla perché non c’era nemmeno lo spazio per sistemare la mia grande biblioteca.

Dopo alcuni giorni, venni di nuovo da lei e le dissi che se mi avesse tenuto ancora senza incarichi in diocesi, unico prete disoccupato, non solo non avrebbe avuto diritto di parlare di crisi di vocazioni e di mancanza di preti, ma che non avrebbe potuto celebrare la Santa Messa in buona coscienza. Alzandomi in piedi aggiunsi che da quel momento lei poteva fare il vescovo della diocesi, ma io avrei fatto il papa di me stesso perché lei mi condannava ad essere un «prete acefalo». Presi la mia borsa e me ne andai dal suo studio, ma lei mi corse dietro e mi fermò fisicamente, dicendo al vicario che avrebbe risolto le difficoltà intercorse e confermò la mia nomina a parroco di San Torpete. Dopo un mese, arrivò la sua nomina non a parroco, ma ad «Amministratore parrocchiale», figura giuridica con le funzioni di parroco, senza esserlo formalmente: insomma lei mi nominò precario a vita, come sono tutt’ora. Il cardinale Bagnasco consoce tutta la storia e anche altro.

Lei tiene a dire che «nei nostri colloqui fraterni ho raccolto le tue difficoltà personali cercando di aiutarti» e io faccio fatica a ricordare «colloqui fraterni» perché nella mia mente sono sedimentati solo ricordi di scontri, compreso quello inerente la nomina a bibliotecario della Franzoniana che lei propose, poi disdisse, poi ripropose e infine lasciò cadere senza nemmeno darmi direttamente una spiegazione plausibile, mentre si permise di dire ad un gruppo di preti che «io ce l’avevo con lei».

Lei dice che ha «cercato di aiutarmi nelle difficoltà», e ci tengo a questo riguardo a dire che quando le feci presente, testimone il vicario generale, che in parrocchia non vi erano libri liturgici e arredi utilizzabili per la liturgia, lei mi fece avere dal suo segretario, don Stefano Olivastri, mille euro (che io scrissi nel bilancio della parrocchia, prenotando i lezionari e il messale: i bilanci sono depositati in curia e ho l’avvertenza di allegare anche i sottoconti). Ricevetti una parrocchia immersa nei debiti e inutilizzabile e, forse lei non lo ricorda, per oltre un anno è rimasta chiusa al pubblico, nonostante lei l’avesse inaugurata in pompa magna nel 2005.

Per un anno celebrai nella vicina chiesa di San Giorgio, senza che lei si scomponesse nella «sua benevolenza episcopale». Il 7 dicembre 2005 lei venne a casa mia e le feci fare il giro di tutta la chiesa e della canonica e lei si mise le mani ai capelli per lo stato di degrado dei locali dove vivevo, dicendo: «e dire che me l’hanno anche fatta inaugurare!». Mi disse anche di presentarle un progetto che lei poi propose insieme alla Biblioteca Franzoniana e alla Chiese delle Vigne in quel progetto ministeriale di recupero dei fondi «ex colombiane» e che con enorme fatica sto portando a compimento. Cominciai a celebrare in San Torpete il 16 luglio 2006. In seguito, fu il cardinale Bagnasco a darmi qualche suppellettile da altare che gli avevano regalato. Questo per la precisione. Ora veniamo al resto.

Lei ha ragione nel dire che «come sacerdoti possiamo e dobbiamo lavorare con cuore puro, senza odio e senza preconcetti ideologici». Come non essere d’accordo? A me pare però che lei confonda la forza, forse anche la veemenza, la sofferenza e l’amore alla Chiesa per «odio» e «ideologia». Posso tranquillizzarla con assoluta certezza: non so cosa sia l’ideologia e non conosco l’odio. Chi mi conosce dice che sono più materno che paterno ed è vero perché sono tenerissimo. Mi pare che lei confonda lo stile letterario con i sentimenti. Dico spesso al cardinale Bagnasco che ho sbagliato secolo: avrei dovuto nascere nel sec. II, quello dei «polemisti», più consono al mio stile retorico. Da qui a dire che possa provare odio per lei o per Berlusconi ce ne corre; e molto.

Sig. cardinale, lei nella sua lettera però non risponde ad alcuno dei problemi che io ho posto e lo ammette: «Non commento le tue esternazioni, tanto sono marcate da accuse e interpretazioni infondate». Libero di farlo, ma gli interrogativi restano nella loro pesantezza perché non mi aiuta a capire dove sta l’infondatezza. La domanda è: le cose che ho dette sono vere o sono false? Se sono vere lei mi dovrebbe ringraziare, se sono false, mi dovrebbe spiegare perché sono false. Lei non fa né l’una cosa né l’altra. Non può limitarsi a fare una semplice predica in cui non tanto velatamente mi fa passare per uno «stravagante». O Dio, accetto tutto, ma non la non verità!

Al contrario nella sua risposta si domanda: «Che cosa ti fa agire in questo modo offensivo verso di me, verso la Chiesa che è in Genova, il suo presbiterio e il suo Pastore?». Non capisco perché tira in ballo «la Chiesa che è in Genova, il suo presbiterio e il suo Pastore», che io non nomino nemmeno. Col cardinale Bagnasco ho un rapporto personale, improntato a reciproca schiettezza e forse anche stima e con lui continuerò a rapportarmi in totale verità perché amo la Chiesa, forse più di Dio.

Se lei si è sentito offeso, sono pronto a chiederle scusa, ma se le cose che ho scritto sono vere soltanto per un decimo, allora lei una qualche scusa la deve dare non a Paolo Farinella, prete, che conta nulla, ma al popolo di Dio che lei dice di servire e che è rimasto scandalizzato dalla sua presenza a quella mostra in quelle circostanze e in quelle ore. Il cardinale Bagnasco parla di «dovere istituzionale», ma il suo e il mio primo dovere non è «istituzionale» verso un potere corrotto e corruttore, ma di testimonianza di quella Verità che esprime il Vangelo. Molti non hanno letto il suo discorso, per altro abbastanza ovvio, ma hanno visto le immagini che le tv hanno trasmesso: lei era accanto ad un presidente del consiglio, che, in quelle stesse ore, la Suprema Corte Costituzionale rimandava davanti al suo giudice naturale dove è accusato di corruzione di testimone e di giudice e di una serie di altri delitti che lei conosce meglio di me. Egli «voleva» apparire accanto a lei e voleva che tutti vedessero.

La gente che frequenta le nostre parrocchie dice: se il segretario di Stato del Papa, va a braccetto con Berlusconi nello stesso giorno in cui la sua corruzione è scoperta, vuol dire che lo protegge. Ne venivamo da una estate di fuoco che avrebbe ammazzato anche una mandria di bisonti: la moglie accusa il marito presidente del consiglio di frequentare minorenni; lui spergiura sui figli in tv e dà quattro versioni diverse del fatto; non solo non chiede scusa agli Italiani, ma si vanta di essere il loro modello; si paragona a Dio e a Gesù Cristo; paga le prostitute dando in cambio posti di ministre e di deputate; il suo magnaccia è indagato per tratta di prostitute e commercio di stupefacenti; dispensa al telefono suggerimenti erotici per amori saffici e soffici (registrazioni rese pubbliche); attacca il Presidente della Repubblica e frantuma la coesione dell’Italia, modificando con i suoi stili di vita l’antropologia del nostro popolo; incita alla illegalità, all’egoismo economico e alla furbizia di chi la fa franca … e lei si fa vedere a suo fianco sorridente, soddisfatto di approfittare «di tutte le forme istituzionali e pastorali che mi sono offerte»? Non credo che in quella «forma istituzionale» lei abbia «approfittato».

Sig. cardinale, venga a vivere tra la gente comune e a sentire cosa si dice del fatto che il Papa abbia acconsentito a ricevere Berlusconi all’aeroporto dicendo: «Che piacere rivederla!», mettendo così una pietra tombale sull’etica che si predica e sulla verità che si propaganda. Come faccio io prete a compiere il mio dovere, se un cardinale, sottoposto solo al Papa, dopo avere rifiutato la prsenza dle presidente del consiglio alla «perdonanza» dell’Aquila, si presenta ora accanto a lui senza alcuna precisazione o un qualche «distinguo»?

Oramai lo sappiamo, nel mondo berlusconizzato la verità non è più quella ontologica, ma solo quella che appare e che lui fa apparire, visto l’uso diabolico e criminoso che fa della tv. In questo «ciarpame», l’unico che ha pagato le spese sull’altare della diplomazia interessata è stato il povero Dino Boffo che avete sacrificato alla «ragion di Stato» e delle convenienze. Il 7 agosto 2009 in un incontro riservato, avevo preventivato al cardinale Bagnasco quello che sarebbe successo in autunno dopo la nomina di Feltri a «Il Giornale» e di Belpietro a «Libero». Dopo nemmeno tre settimane le mie previsioni si sono verificate tutte, una dopo l’altra come un rosario. La nostra gente è disorientata e, vedendo quelle immagini, si lascia andare: se il cardinale assolve Berlusconi, io mi assolvo da solo/da sola.

Lei dice di avere una «responsabilità di carattere universale, approfittando di tutte le forme istituzionali e pastorali che mi sono offerte». Lo credo e non la invidio affatto, ma non a qualunque costo, non a qualunque prezzo. Nel suo discorso alla mostra, non ho letto un cenno alla situazione degradata che abbiamo e stiamo ancora vivendo, a motivo dei comportamenti e delle scelte disumane dell’attuale governo (una per tutte: legge sul reato di clandestinità, che grida vendetta al cospetto di Dio, Padre di tutti gli uomini e di tutte le donne, creati a «sua immagine e somiglianza»).

Lei ha parlato da diplomatico, e, a mio parere, non da sacerdote. Prima di fare il discorso e a microfoni aperti, io penso che avrebbe dovuto invitare il presidente del consiglio a chiedere scusa per il suo operato, tanto più in contraddizione, in quanto lui si spaccia per cattolico credente. Oppure, avrebbe dovuto dire: «Sig. presidente del consiglio, sono qui per inaugurare una mostra, ma non pensi che la mia presenza possa essere una assoluzione preventiva per il suo comportamento deplorevole e scandaloso che esige una riparazione pubblica». Lei non lo ha fatto, ma si è adeguato diplomaticamente alla bisogna e se non ha messo in imbarazzo il presidente del consiglio, non ha reso, a mio modesto parere, un servizio alla Chiesa.

Ho ricevuto migliaia di lettere, migliaia di e-mail e di telefonate di adesione e non creda che tutto questo mi faccia piacere perché è una sofferenza per me sentirmi dire che «se sono ancora nella Chiesa è perché vi sono preti come lei». La gente crede di farmi un complimento, invece affonda il coltello nella piaga perché è il segno che le persone dietro al Vangelo corrono a braccia spalancate, ma si fermano davanti agli interessi e ai comportamenti degli uomini di Chiesa che dovrebbero testimoniare la vita eterna, l’amore di Dio e la via del Vangelo. Forse lei e gli altri «eminentissimi» vivete troppo nel palazzo ovattato di incenso e di onori, e vi sfugge il polso feriale della gente comune che pretende da noi coerenza e verità. Sì, io mi aspetto dai miei vescovi che mi siano di esempio, di esempio trasparente e se vogliono che non mi occupi di politica e di politici, comincino a farlo loro e io li seguirò obbediente e pacifico.

Paolo Farinella, prete cattolico (poco romano)

(22 ottobre 2009) " xxx

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lunedì 12 ottobre 2009

Il protettore del padrino. Lettera aperta al card. Tarcisio Bertone, segretario di Stato Vaticano



Lun. 12.10.2009 - Dal sito di "MicroMega", lettera aperta di Paolo Farinella, prete.

" Sig. Cardinale,

Mercoledì 7 ottobre 2009 è stato un giorno memorabile e tragico. Memorabile perché una sentenza della Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il tentativo di Silvio Berlusconi, presidente del consiglio, corrotto e corruttore, di stravolgere lo stato di diritto, piegandolo ai suoi biechi e immorali interessi. Con il «Lodo Alfano», egli voleva la consacrazione costituzionale di essere l’«Unto di Dio» in terra. Che Berlusconi sia «unto» è fuori di ogni dubbio: unto di falsità, di immoralità, di corruzione, di furto, di evasione, di illegalità e di antidemocraticità. La sentenza della Corte, invece, ha restituito a noi cittadini comuni, l’orgoglio della dignità di appartenere ad una Repubblica, dove l’uguaglianza dei cittadini e la legalità sono ancora «principi non negoziabili». Con questa sentenza l’Italia è più forte e più libera. xxx

Mercoledì 7 ottobre 2009, però, è stato anche un giorno tragico. Lei, sig. segretario di Stato Vaticano, nonostante la disapprovazione della Chiesa reale, ad ogni costo, ha voluto tagliare insieme a Berlusconi il nastro della mostra «Il Potere e la Grazia» a palazzo Venezia (ogni riferimento al passato è decisamente voluto). Che scena deprimente! Che spettacolo rozzo e indecoroso! Lei sapeva che «in quel giorno e in quelle ore», la Corte Suprema si sarebbe pronunciata e sapeva quali sarebbero state le reazioni di un uomo malato e fuori controllo (testimonianza della moglie), eppure non ha esitato ad aspettare e a rispettare la tempistica imposta da un giullare che da sempre ha identificato i suoi interessi con quelli del Paese.

Il presidente del consiglio, furibondo per non essere «più uguale degli altri», chiuso nel bunker insieme ai suoi disonorevoli dipendenti, sapendo che ormai non poteva sfruttare il tg1 minzoliniano, ormai fuori tempo massimo, ritarda volutamente l’apertura della mostra, costringendo lei ad aspettare i suoi comodi. Egli infatti varca la soglia di palazzo Grazioli, sede di meretricio istituzionale, nello stesso momento in cui inizia il tg4 di famiglia, consapevole che quelle primissime immagini avrebbero fatto il giro del mondo.

Come un cane, ferito all’improvviso, con uno stile da pescivendolo (con tutto il rispetto) più che da uomo di Stato, va all’attacco di tutti: lo tzunami della vergogna attraversa l’etere, una valanga di falsità e di fango schizza dappertutto: contro il Presidente della Repubblica, contro i Giudici Costituzionali (anche contro quei due con i quali ha condiviso una irrituale cena, prima della sentenza?), contro la guardia del corpo più alta di lui, contro la stampa, contro la televisione, contro la luna che si permetteva di sogghignare. Una scena invereconda.

«In quel giorno», il 7 ottobre 2009, la prudenza clericale e diplomatica avrebbe voluto che lei stesse defilato, magari in qualche cappella a pregare per la «serva Italia di dolore ostello / nave sanza nocchiere in gran in gran tempesta / non donna di provincie, ma bordello» (Dante, Purg. II, 6,76-78). Invece?… Invece, lei, sig. cardinale, stava lì, come un compare di nozze, accanto all’«utilizzatore finale» di prostitute a pagamento. Egli da solo ha calpestato tutti «i principi etici non negoziabili» con cui lei è solito pontificare; tutti i principi della dottrina sociale della Chiesa che ogni tanto lei rispolvera per darsi un contegno; tutti i valori etici per cui il Vaticano e la Cei avete anche organizzato una manifestazione di massa, il Family-Day, a cui ha partecipato anche il frequentatore di minorenni, divorziato e strenuo difensore della «famiglia», senza che nessuno lo accompagnasse in qualche strada adiacente; tutti i principi, i valori, le regole e il metodo che il papa predica e la Cei descrive nel documento «Educare alla legalità» (1991-2000), che avete abortito prima ancora che nascesse.

Tutto ha corrotto il Corruttore, anche le coscienza del popolo cattolico che, su vostra indicazione, lo vota in massa, senza nemmeno turarsi il naso. Lei stava lì come un protettore che mette il cappello sul proprio protetto, mandando un messaggio mediatico trasversale dentro e fuori i palazzi: Berlusconi è sotto la protezione del Vaticano e non si tocca, come lei aveva fatto con Giovanni Profiti, indagato a Genova e promosso a presidente dell’ospedale Bambino Gesù di Roma, di proprietà del Vaticano. Si direbbe che lei sia attratto dalla recidività: lei, infatti, va a braccetto di Berlusconi, nonostante sia corrotto, nonostante abbia corrotto, nonostante frequenti minorenni, nonostante favorisca e alimenti la prostituzione, nonostante sia evasore, nonostante sia piduista, nonostante sia Berlusconijad, nonostante abbia impoverito l’Italia dentro l’abbia umiliata fuori, all’estero, dove stampa ed economia chiedono a gran voce le dimissioni.

A lei, sig. cardinale, che gliene cale? L’importante è portare a casa, a costo zero, qualche legge che domani un altro governo eliminerà. Ah, la lungimiranza della diplomazia vaticana, un tempo mito ineguagliabile di accortezza serpentina, oggi ridotta a comparsa nel ridotto del berlusconismo, mito dell’anticristianesimo.

Il mondo ha visto che il presidente del consiglio, vergogna internazionale della Repubblica italiana, certo ormai del padrinaggio vaticano, ha osato dirle davanti a tutti che in quella mostra mancava un quadro: «quello di San Silvio da Arcore» e lei, con il sorriso di prassi (diplomaticamente ebete), è rimasto allampanato, incapace di infilargli una mano in bocca e strappargli la lingua. Lei annuiva, restando immobile, che è il top della diplomazia e della falsità proterva e bugiarda. Io non so se lei si sia reso conto del danno che ha provocato alla Chiesa universale e alla Chiesa che è in Italia in modo particolare.

Con la sua presenza «in quel giorno e a quell’ora», senza che Berlusconi ammettesse i suoi errori e chiedesse scusa agli Italiani e alle Italiane dei suoi comportamenti non privati, ma di presidente del consiglio in carica in luoghi protetti dal «segreto di Stato», lei ha posto la premessa formale per sette conseguenze inevitabili, che peseranno sulla sua coscienza e di cui dovrà rendere conto a quel Dio in cui dice di credere:

a) Lei ha avallato la tesi del presidente del consiglio che afferma di essere orgoglioso dei suoi comportamenti perché gli Italiani vogliono essere come lui. In questo modo lo propone a tutti come MODELLO. Lei insieme a Berlusconi, due giorni dopo una sentenza di un sovrano tribunale che lo giudica corruttore di giudici e nel giorno in cui la Corte Suprema lo spoglia della sua pretesa e mafiosa superiorità, rendendolo semplicemente cittadino tra i cittadini, autorizza tutti gli Italiani e le Italiane a imitarlo perché che altro significa la sua presenza se non la santificazione di un uomo perverso e del suo sistema d’impunità immorale?

b) Lei ha dato vigore e densità alla pazzia di un uomo che non esita a gettare la Nazione in una guerra civile pur di salvarsi da tutte le sue ignominie e dai tribunali, anche per fatti commessi prima che diventasse deputato e presidente del consiglio. Come nel 1929 fu solo il Vaticano a riconoscere il governo di Mussolini e la sua dittatura fascista, così nel 2009, esattamente dopo 80 anni, è ancora il Vaticano a togliere d’impiccio istituzionale un governo e un indegno presidente del consiglio condannato dal mondo intero.

c) Lei con questa sua presenza, «in quel giorno e in quelle condizioni», ha perso ogni dignità etica di parlare di mortalità e di spiritualità perché non ha esitato, sul modello della migliore tradizione mafiosa, a dire al mondo intero che un mafioso, amico dei mafiosi e protettore di mafiosi, corruttore, evasore (con tutto il resto), è protetto dalla Sacra Famiglia Vaticana. E’ possibile che lei rappresenti uno Stato estero, è impossibile che possa, anche per sbaglio, rappresentare la Chiesa di Cristo.

d) Lei con la sua presenza a quella mostra ha assolto di fatto Berlusconi, all’insegna del «siamo pratici, ovvia!», rinnegando anche le condizioni etiche e sacramentali che la Chiesa impone ai poveri diavoli. Lei ha disonorato tutti i credenti che faticano giorno per giorno a conciliare quello che voi dite con le difficoltà della vita. Forse abbiamo sbagliato interpretazione del vangelo e correggerlo con «i ricchi li avrete sempre con voi», al posto di «i poveri li avrete sempre con voi». Personalmente ritengo che lei, in coscienza, non possa celebrare la Messa senza commettere sacrilegio e vilipendio della dottrina cattolica.

e) Lei apparendo accanto all’Indecenza personificata, non solo ne diventa complice e coartefice, ma autorizza centinaia e centinaia di persone credenti e non credenti a diffidare di una gerarchia collusa con il potere e il malaffare, esortando i molti che sono sulla soglia, invitandoli a lasciare la Chiesa, sbattezzandosi come atto formale, unica arma di autodifesa nei vostri confronti che ascoltate solo il richiamo del corrotto potere.

f) Lei ha dato l’avallo ai giorni tristi che ci attendono perché l’uomo è senza coscienza di Stato.

g) Lei è colpevole se le offerte dell’8xmille diminuiranno ancora e deve sapere che ne è stato e ne è la causa efficiente. Da alcuni anni le offerte diminuiscono sempre di più e sulla mia strada incontro sempre più persone che dichiarano di firmare per altre realtà religiose, perché non vogliono essere complici di una clero e di una gerarchia che ha tradito il Vangelo.

Come prete di strada, come credente nel Gesù del Vangelo e come cittadino che ama il suo Paese, senza esserne schiavo, mi permetta di dirle con chiarezza: lei non mi rappresenta più (veramente non mi ha mai rappresentato, nemmeno quando era vescovo di Genova) e sono fiero di rifiutare e ripudiare il suo modello e quello che lei propone, proteggendolo: il berlusconismo che è l’indecenza che corrompe la nostra Nazione e corrode il nostro futuro. Intanto il territorio, dilapidato dai condoni edilizi, si frantuma, i precari, i licenziati, i tre milioni di poveri che vivono con 222,00 euro, gli sfrattati e gli immigrati uccisi, tutti in coro ringraziano anche lei che, ora con certezza, «sappiamo da che parte sta».

Con disistima,

Paolo Farinella, prete " xxx

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giovedì 8 ottobre 2009

Senza parole - Senza pudore

Gio. 08.10.2009 - 2 video in parallelo. I nemici comuni di Riina e Berlusconi.



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Il pericolo che il Presidente rinunci ad esercitare i suoi poteri, garanzia per tutti



Gio. 08.10.2009 - Dal Blog di Paolo Franceschetti (05.10.2009), di Solange Manfredi.

" Il 03 ottobre 2009 il Presidente Napolitano, prima di firmare il decreto legge 103/2009 (lo scudo fiscale), ad un cittadino che gli ha urlato: “Presidente, non firmi, lo faccia per le persone oneste”, ha risposto: “Nella Costituzione c'è scritto che il presidente promulga le leggi. Se non firmo oggi il parlamento rivota un’altra volta la stessa legge ed è scritto che a quel punto io sono obbligato a firmare. Questo voi non lo sapete? Se mi dite non firmare, non significa niente".

Davanti a questa affermazione del Presidente Napolitano ho sobbalzato come cittadina, prima ancora che come giurista. Ritengo l'affermazione del Presidente delle Repubblica italiana di una gravità assoluta, nonchè foriera di gravi rischi per l’esistenza stessa della democrazia. xxx

Mi spiego.

Il Presidente della Repubblica è garante della Costituzione.

Cosa significa questo?

Significa che il Presidente della Repubblica ha l'importantissimo compito di controllo preventivo di costituzionalità sulle funzioni legislative e di governo.

Come esercita il Capo dello Stato questa funzione di controllo? Emanando le leggi.

Il Costituente ha previsto che sia compito del Presidente della Repubblica promulgare le leggi, emanare i decreti ed i regolamenti proprio per permettergli di svolgere questa funzione di controllo. Infatti il parlamento vota una legge (decreto o regolamento), questa giunge sul tavolo del Capo dello Stato che, con la sua firma, ne garantisce la conformità ai principi costituzionali.

Se il presidente ha dei dubbi, e ritiene che la legge presenti profili di incostituzionalità, può, e deve, non firmare, ovvero può, e deve, porre un veto sospensivo sulle legge e, con messaggio motivato, rinviare alle Camere la legge chiedendo una nuova votazione (Art. 74 Cost. “Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può' con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione)

E' possibile che le Camere non tengano conto delle indicazioni del Capo dello Stato e approvino nuovamente lo stesso testo (difficilmente capita, normalmente le Camere tengono in considerazione le indicazioni del Capo dello Stato). In questo caso il Capo dello Stato deve firmare e promulgare la legge (Art. 74 Cost. Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata)[1].

Tale previsione ha un suo perché. Infatti il Costituente, ben consapevole dell'importanza della costituzione, e volendo tutelarla da tutti i possibili abusi, ha predisposto una doppia garanzia: da un lato quella del Capo dello Stato su possibili abusi della maggioranza (con il veto sospensivo); dall'altra da possibili abusi proprio del Capo dello Stato che, abusando del suo diritto di veto, potrebbe rifiutarsi di mettere la firma sulle leggi votate dalle camere così bloccando all’infinito il Legislatore.

Ma tutto ciò non significa che la funzione preventiva di controllo di costituzionalità del Capo dello Stato non sia importante, anzi è fondamentale e, sopratutto, non può essere sostituita dal solo controllo successivo della Corte Costituzionale.

Infatti, se è vero che le decisioni di rispondenza delle leggi alla Costituzione competono alla Corte Costituzionale, è anche vero che il potere di valutazione preventiva dato al Capo dello Stato, ove non esercitato, può portare a violazioni costituzionali irreparabili. Mi spiego.

Il capo dello stato ha la funzione di garante della costituzione (funzione di controllo preventiva).

La corte costituzionale ha la funzione di custode della costituzione (funzione di controllo successiva).

Il rispetto della carta costituzionale può avvenire solo se entrambe le funzioni vengono svolte correttamente.

Per comprendere meglio questo concetto analizziamo il decreto legge sullo scudo fiscale (103/2009) appena firmato da Napolitano. (Per una disamina più approfondita della problematica rinviamo all’articolo apparso sul blog Uguale per tutti http://toghe.blogspot.com/2009/10/lo-scudo-fiscale-tra-amnistia.html)

L'effetto “salvifico” dello scudo, che prevede la non punibilità di alcuni reati se collegati alla illecita esportazione di capitali all’estero, si applicherà solo ai soggetti che al 05 agosto 2009 non avevano ancora un procedimento penale pendente, ovvero gli evasori non ancora scoperti.

Ecco il problema costituzionale, nello specifico la violazione dell’art. 3 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”)

Perché? Perché l’applicazione di questo “beneficio” non viene ancorata ad una condotta del soggetto, ma ad un fattore esterno (ovvero se la Guardia di Finanza ti ha scoperto oppure no).

Ciò ha come conseguenza che tra due persone che hanno tenuto la stessa condotta, che hanno commesso lo stesso reato, una verrà condannata e l'altra no. Non vi pare violi leggermente l'art. 3 della Costituzione?.

Ma c'è di più. Ed è qui che appare assolutamente chiaro come una tutela efficace dei diritti costituzionali possa avvenire solo se entrambe le funzioni di controllo della costituzione (preventiva del Capo dello Stato e successiva della corte costituzionale) vengono svolte.

Anche se un domani la corte costituzionale giudicherà il decreto legge sullo scudo fiscale (103/2009) incostituzionale, non sarà comunque possibile porre rimedio alla violazione dell’art. 3 della Costituzione. Infatti per il principio del “favor rei” presente nel nostro ordinamento (che stabilisce che all'imputato si applica la legge più favorevole con la conseguenza, quindi, che non potrà subire gli effetti negativi della sentenza che pronuncia l’incostituzionalità di una legge), tutti coloro che avranno evaso e si saranno “protetti” con lo scudo fiscale successivamente dichiarato incostituzionale, non saranno comunque perseguibili, sancendo così definitivamente la violazione dell'art. 3 della nostra Costituzione.

Ma questo rischio era ben presente nel nostro costituente (abbiamo una delle migliori costituzioni del mondo), ed è per questo che ha predisposto due fasi di controllo alla nostra costituzione, perché il solo controllo successivo della corte costituzionale, in alcuni casi, non potrà che essere tardivo per la tutela di diritti costituzionalmente garantiti, come abbiamo appena visto.

In altri termini, se il Capo dello Stato rinuncia a priori ad esercitare a questa sua importantissima funzione preventiva di garante della costituzione, non solo la sua figura si riduce a quella di un passacarte ma, così facendo, salta la nostra costituzione.


La nostra costituzione è un sistema di regole /funzioni integrato teso alla garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini (che poi è quello che ci permette di essere una democrazia). Se una funzione non viene esercitata il sistema salta, saltano le efficaci garanzie sui possibili abusi ai nostri diritti fondamentali, salta il sistema democratico alla base della nostra repubblica.


Ecco perché è tanto grave la dichiarazione del presidente Napolitano che afferma: “Nella Costituzione c'è scritto che il presidente promulga le leggi. Se non firmo oggi il parlamento rivota un’altra volta la stessa legge ed è scritto che a quel punto io sono obbligato a firmare. Questo voi non lo sapete? Se mi dite non firmare, non significa niente".

Significa eccome. E’ fondamentale! E’ la differenza tra “tutelare” e “non tutelare” efficacemente un diritto costituzionale!

Il Capo dello Stato non può rinunciare a priori ad esercitare la sua funzione di garante dicendo “tanto è lo stesso, il parlamento rivota un’altra volta la stessa legge”. Innanzitutto come fa a saperlo? Ma, sopratutto, anche qualora avesse questa consapevolezza, questa può essere sufficiente per indurlo a non esercitare la sua funzione? NO!

Ma se il Capo dello Stato è arrivato a dire questo la domanda da porsi è:

Cosa intendeva dire veramente il Presidente Napolitano con quella frase?

E' credibile che non sappia cosa comporta la carica che ha assunto?

E' credibile che non conosca l’importanza della sua funzione, e le possibili ed irreparabili conseguenze se questa non viene esercitata?

Se non pare credibile tutto ciò, cosa ha voluto dire esattamente il Presidente della Repubblica con quella frase?

Ma, sopratutto, se il Capo dello Stato rinuncia a priori ad esercitare la sua funzione di garante della Costituzione, la nostra si può chiamare ancora democrazia?

In altri termini: siamo ancora in una Repubblica oppure, probabilmente, siamo in un momento cui non vi è più controllo agli abusi di una maggioranza perché chi demandato a questo compito vi ha rinunciato a priori dichiarandolo pubblicamente? E se è così, l’affermazione di Napolitano può significare che, in realtà, è già stato attuato e portato a termine una sorta di golpe bianco?

Spero vivamente di no.

[1] In realtà, nei casi più gravi, si ritiene che, se la legge che gli viene chiesto di firmare è anti-costituzionale, ovvero apparisse gravemente ed irrimediabilmente lesiva delle competenze costituzionali di un altro potere, il Capo dello Stato potrebbe ancora rifiutarsi di firmare, proprio in forza della sua primaria funzione di garante della costituzione e dell'equilibrio tra poteri. Certo, a fronte di un atto così' "forte" probabilmente si assisterebbe ad uno scontro durissimo in cui il Governo potrebbe sollevare un conflitto di attribuzioni davanti alla Corte Costituzionale " xxx

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mercoledì 7 ottobre 2009

LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI

Il tappo è saltato-->

Mer. 07.10.2009 -

Art. 3, 1 comma, della Costituzione italiana:

" Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. "

Il c.d. lodo Alfano è incostituzionale per violazione degli artt. 3 e 138 della Costituzione. Così ha stablito oggi la Corte costituzionale. [fine post] xxx

xxxProsecuzionexxx

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venerdì 2 ottobre 2009

Presidente, lascio la toga anche per colpa sua



Ven. 02.10.2009 - Di Luigi De Magistris (01.10.2009).

" Al Sig. Presidente della Repubblica - Piazza del Quirinale ROMA

Signor Presidente, scrivo questa lettera a Lei soprattutto nella Sua qualità di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura.

E’ una lettera che non avrei mai voluto scrivere. E’ uno scritto che evidenzia quanto sia grave e serio lo stato di salute della democrazia nella nostra amata Italia.
E’ una lettera con la quale Le comunico, formalmente, le mie dimissioni dall’Ordine Giudiziario.
Lei non può nemmeno lontanamente immaginare quanto dolorosa sia per me tale decisione.
Sebbene l’Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro – come recita l’art. 1 della Costituzione – non sono molti quelli che possono fare il lavoro che hanno sognato; tanti il lavoro non lo hanno, molti sono precari, altri hanno dovuto piegare la schiena al potente di turno per ottenere un posto per vivere, altri vengono licenziati come scarti sociali, tanti altri ancora sono cassintegrati. xxx

Ebbene, io ho avuto la fortuna di fare il magistrato, il mestiere che avevo sognato fin dal momento in cui mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Federico II” di Napoli, luogo storico della cultura giuridica. La magistratura ce l’ho nel mio sangue, provengo da quattro generazioni di magistrati. Ho respirato l’aria di questo nobile e difficile mestiere sin da bambino. Uno dei giorni più belli della mia vita è stato quando ho superato il concorso per diventare uditore giudiziario. Una gioia immensa che mai avrei potuto immaginare destinata a un epilogo così buio. E’ cominciata con passione, idealità, entusiasmo, ma anche con umiltà ed equilibrio, la missione della mia vita professionale, come in modo spregiativo la definì il rappresentante della Procura Generale della Cassazione durante quel simulacro di processo disciplinare che fu imbastito nei miei confronti davanti al Csm. Per me, esercitare le funzioni giudiziarie in ossequio alla Costituzione Repubblicana significava tentare di dare una risposta concreta alla richiesta di giustizia che sale dai cittadini in nome dei quali la Giustizia viene amministrata. Quei cittadini che – contrariamente a quanto reputa la casta politica e dei poteri forti – sono tutti uguali davanti alla legge. Del resto Lei, signor Presidente, che è il custode della Costituzione, ben conosce tali inviolabili principi costituzionali e mi perdoni, pertanto, se li ricordo a me stesso.

I modelli ai quali mi sono ispirato sin dall’ingresso in magistratura – oltre a mio padre, il cui esempio è scolpito per sempre nel mio cuore e nella mia mente – sono stati magistrati quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ed è nella loro memoria che ho deciso di sventolare anch’io l’agenda rossa di Borsellino, portata in piazza con immensa dignità dal fratello Salvatore. Ho sempre pensato che chi ha il privilegio di poter fare quello che sogna nella vita debba dare il massimo per il bene pubblico e l’interesse collettivo, anche a costo della vita. Per questo decisi di assumere le funzioni di Pubblico Ministero in una sede di trincea, di prima linea nel contrasto al crimine organizzato: la Calabria. Una terra da cui, in genere, i magistrati forestieri scappano dopo aver svolto il periodo previsto dalla legge e dove invece avevo deciso (ingenuamente) di restare.

Ho dedicato a questo lavoro gli anni migliori della mia vita, dai 25 ai 40, lavorando mai meno di dodici ore al giorno, spesso anche di notte, di domenica, le ferie un lusso al quale dover spesso rinunciare. Sacrifici enormi, personali e familiari, ma nessun rimpianto: rifarei tutto, con le stesse energie e il medesimo entusiasmo.

In questi anni difficili, ma entusiasmanti, in quanto numerosi sono stati i risultati raggiunti, ho avuto al mio fianco diversi colleghi magistrati, significativi settori della polizia giudiziaria, un gruppo di validi collaboratori. Ho cercato sempre di fare un lavoro di squadra, di operare in pool. Parallelamente al consolidarsi dell’azione investigativa svolta, però, si rafforzavano le attività di ostacolo che puntavano al mio isolamento, alla de-legittimazione del mio lavoro, alle più disparate strumentalizzazioni. Intimidazioni, pressioni, minacce, ostacoli, interferenze. Attività che, talvolta, provenivano dall’esterno delle Istituzioni, ma il più delle volte dall’interno: dalla politica, dai poteri forti, dalla stessa magistratura. Signor Presidente, a Lei non sfuggirà, quale Presidente del CSM, che l’indipendenza della magistratura può essere minata non solo dall’esterno dell’ordine giudiziario, ma anche dall’interno: ostacoli nel lavoro quotidiano da parte di dirigenti e colleghi , revoche e avocazioni illegali, tecniche per impedire un celere ed efficace svolgimento delle inchieste.

Ho condotto indagini nei settori più disparati, ma solo quando mi occupavo di reati contro la Pubblica amministrazione diventavo un cattivo magistrato.

Posso dire con orgoglio che il mio lavoro a Catanzaro procedeva in modo assolutamente proficuo in tutte le direzioni, come impone il precetto costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, corollario del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. La polizia giudiziaria lavorava con sacrifici enormi, perché percepiva che risultati straordinari venivano raggiunti. Le persone informate dei fatti testimoniavano e offrivano il loro contributo. Lo Stato c’era ed era visibile, in un territorio martoriato dal malaffare. Le inchieste venivano portate avanti tutte, senza insabbiamenti di quelle contro i poteri forti (come invece troppe volte accade). Questo modo di lavorare, il popolo calabrese – piaccia o non piaccia al sistema castale – lo ha capito, mostrandoci sostegno e solidarietà. Non è poco, signor Presidente, in una Regione in cui opera una delle organizzazioni mafiose più potenti del mondo. E che lo Stato stesse funzionando lo ha compreso bene anche la criminalità organizzata. Tant’è vero che si sono subito affinate nuove tecniche di neutralizzazione dei servitori dello Stato che si ostinano ad applicare la Costituzione Repubblicana.

Non so se Ella, Signor Presidente, condivide la mia analisi. Ma a me pare che - dopo la stagione delle stragi di mafia culminate nel 1992 con gli attentati di Capaci e di via D’Amelio e dopo la strategia della tensione delle bombe a grappolo in punti nevralgici del Paese nel 1993 - le mafie hanno preso a istituzionalizzarsi. Hanno deciso di penetrare diffusamente nella cosa pubblica,nell’economia, nella finanza. Sono divenute il cancro della nostra democrazia. Controllano una parte significativa del prodotto interno lordo del nostro paese, hanno loro rappresentanti nella politica e nelle Istituzioni a tutti i livelli, nazionali e territoriali. Nemmeno la magistratura e le forze dell’ordine sono rimaste impermeabili. Si è creata un’autentica emergenza democratica, da sconfiggere in Italia e in Europa.

Gli ostacoli più micidiali all’attività dei servitori dello Stato sono i mafiosi di Stato: quelli che indossano abiti istituzionali, ma piegano le loro funzioni a interessi personali, di gruppi, di comitati d’affari, di centri di potere occulto. Non mi dilungo oltre, perché credo che al Presidente della Repubblica tutto questo dovrebbe essere noto.
Ebbene oggi, Signor Presidente, non è più necessario uccidere i servitori dello Stato: si creerebbero nuovi martiri; magari, ai funerali di Stato, il popolo prenderebbe di nuovo a calci e sputi i simulacri del regime; l’Europa ci metterebbe sotto tutela. Non vale la pena rischiare, anzi non serve. Si può raggiungere lo stesso risultato con modalità diverse: al posto della violenza fisica si utilizza quella morale, la violenza della carta da bollo, l’uso illegale del diritto o il diritto illegittimo, le campagne diffamatorie della propaganda di regime, si scelga la formula che più piace.

Che ci vuole del resto, signor Presidente, per trasferire un magistrato perbene, un poliziotto troppo curioso, un carabiniere zelante, un finanziere scrupoloso, un prete coraggioso, un funzionario che non piega la schiena, o per imbavagliare un giornalista che racconta i fatti? E’ tutto molto semplice, quasi banale. Ordinaria amministrazione.
Per allontanare i servitori dello Stato e del bene pubblico, bisogna prima isolarli, delegittimarli, diffamarli, calunniarli. A questo servono i politici collusi, la stampa di regime al servizio dei poteri forti, i magistrati proni al potere, gli apparati deviati dello Stato.

La solitudine è una caratteristica del magistrato, l’isolamento è un pericolo. Ebbene, in Calabria, mentre le persone rispondevano positivamente all’azione di servitori dello Stato vincendo timori di ritorsioni, spezzando omertà e connivenze, pezzi significativi delle Istituzioni contrastavano le attività di magistrati e forze dell’ordine con ogni mezzo.
Quello che si è realizzato negli anni in Calabria sul piano investigativo è rimasto ignoto, in quanto la cappa esercitata anche dalla forza delle massonerie deviate impediva di farlo conoscere all’esterno. Il resto del Paese non doveva sapere. Si praticava la scomparsa dei fatti. Quando però le vicende sono cominciate a uscire dal territorio calabrese, l’azione di sabotaggio si è fatta ancor più violenta e repentina. Invece dello sbarco degli Alleati, c’è stato quello della borghesia mafiosa che soffoca la vita civile calabrese. L’azione dello Stato produceva risultati in termini di indagini, restituiva fiducia nelle Istituzioni, svelava i legami tra mafia “militare” e colletti bianchi, smascherava il saccheggio di denaro pubblico perpetrate da politici collusi, (im)prenditori criminali e pezzi deviati delle Istituzioni a danno della stragrande maggioranza della popolazione, scoperchiava un mercato del lavoro piegato a interessi illeciti, squadernava il controllo del voto e, quindi, l’inquinamento e la confisca della democrazia.

Sono cose che non si possono far conoscere, signor Presidente. Altrimenti poi il popolo prende coscienza, capisce come si fanno affari sulla pelle dei più deboli, dissente e magari innesca quella democrazia partecipativa che spaventa il sistema di potere che opprime la nostra democrazia. Una presa di coscienza e conoscenza poteva scatenare una sana e pacifica ribellione sociale.

Lei, signor Presidente, dovrebbe conoscere – sempre quale Presidente del CSM - le attività messe in atto ai miei danni. Mi auguro che abbia assunto le dovute informazioni su quello che accadeva in Calabria per fermare il lavoro che stavo svolgendo in ossequio alla legge e alla Costituzione. Avrà potuto così notare che è stata messa in atto un’attività di indebito esercizio di funzioni istituzionali al solo fine di bloccare indagini che avrebbero potuto ricostruire fatti gravissimi commessi in Calabria (e non solo) da politici di destra, di sinistra e di centro, da imprenditori, magistrati, professionisti, esponenti dei servizi segreti e delle forze dell’ordine. Tutto ciò non era tollerabile in un Paese ad alta densità mafiosa istituzionale. Come poteva un pugno di servitori dello Stato pensare di esercitare il proprio mandato onestamente applicando la Costituzione? Signor Presidente, Lei - come altri esponenti delle Istituzioni - è venuto in Calabria, ha esortato i cittadini a ribellarsi al crimine organizzato e ad avere fiducia nelle Istituzioni. Perché, allora, non è stato vicino ai servitori dello Stato che si sono imbattuti nel cancro della nostra democrazia, cioè nelle più terribili collusioni tra criminalità organizzata e poteri deviati? Non ho mai colto alcun segnale da parte Sua in questa direzione, anzi. Eppure avevo sperato in un Suo intervento, anche pubblico: ero ancora nella fase della mia ingenuità istituzionale. Mi illudevo nella neutralità, anzi nell’imparzialità dei pubblici poteri. Poi ho visto in volto, pagando il prezzo più amaro, l’ingiustizia senza fine.

Sono stato ostacolato, mi sono state sottratte le indagini, mi hanno trasferito, mi hanno punito solo perché ho fatto il mio dovere, come poi ha sancito l’Autorità Giudiziaria competente. Ma intanto l’obiettivo era stato raggiunto, anche se una parte del Paese aveva e ha capito quel che è accaduto, ha compreso la posta in gioco e me l’ha testimoniato con un affetto che Lei non può nemmeno immaginare. Un affetto che costituisce per me un’inesauribile risorsa aurea.

Ho denunciato fatti gravissimi all’Autorità giudiziaria competente, la Procura della Repubblica di Salerno: me lo imponeva la legge e prima ancora la mia coscienza. Magistrati onesti e coraggiosi hanno avuto il solo torto di accertare la verità, ma questa ancora una volta era sgradita al potere. E allora anche loro dovevano pagare, in modo ancora più duro e ingiusto: la lezione impartita al sottoscritto non era stata sufficiente. La logica di regime del “colpirne uno per educarne cento” usata nei miei confronti non bastava ancora a scalfire quella parte della magistratura che è l’orgoglio del nostro Paese. Ci voleva un altro segnale forte, proveniente dalle massime Istituzioni, magistratura compresa: la ragion di Stato (ma quale Stato, signor Presidente?) non può tollerare che magistrati liberi, autonomi e indipendenti possano ricostruire fatti gravissimi che mettono in pericolo il sistema criminale di potere su cui si regge, in parte, il nostro Paese.

Quando la Procura della Repubblica di Salerno – un pool di magistrati, non uno “antropologicamente diverso”, come nel mio caso – ha adottato nei confronti di insigni personaggi calabresi provvedimenti non graditi a quei poteri che avevano agito per distruggermi, ecco che il circuito mediatico-istituzionale, ai più alti livelli, ha fatto filtrare il messaggio perverso che era in atto una “lite fra Procure”, una guerra per bande. Una menzogna di regime: nessuna guerra vi è stata, fra magistrati di Salerno e Catanzaro. C’era invece semplicemente, come capirebbe anche mio figlio di 5 anni, una Procura che indagava, ai sensi dell’art. 11 del Codice di procedura penale, su magistrati di un altro distretto. E questi, per ostacolare le indagini, hanno a loro volta indagato i colleghi che indagavano su di loro, e me quale loro istigatore. Un mostro giuridico. Un’aberrazione di un sistema che si difende dalla ricerca della verità, tentando di nascondersi dietro lo schermo di una legalità solo apparente.

Questa menzogna è servita a buttare fuori dalle indagini (e dalla funzioni di Pm) tre magistrati di Salerno, uno dei quali lasciato addirittura senza lavoro. Il messaggio doveva essere chiaro e inequivocabile: non deve accadere più, basta, capito?!
Signor Presidente, io credo che Lei in questa vicenda abbia sbagliato. Lo affermo con enorme rispetto per l’Istituzione che Lei rappresenta, ma con altrettanta sincerità e determinazione. Ricordo bene il Suo intervento – devo dire, senza precedenti – dopo che furono eseguite le perquisizioni da parte dei magistrati di Salerno. Rimasi amareggiato, ma non meravigliato.
Signor Presidente, questo sistema malato mi ha di fatto strappato di dosso la toga che avevo indossato con amore profondo. E il fatto che non mi sia stato più consentito di esercitare il mestiere stupendo di Pubblico ministero mi ha spinto ad accettare un’avventura politica straordinaria. Un’azione inaccettabile come quella che ho subìto può strapparmi le amate funzioni, può spegnere il sogno professionale della mia vita, può allontanarmi dal mio lavoro, ma non può piegare la mia dignità, nè ledere la mia schiena dritta, nè scalfire il mio entusiasmo, nè corrodere la mia passione e la volontà di fare qualcosa di utile per il mio Paese.

Nell’animo, nel cuore e nella mente, sarò sempre magistrato.
Nella Politica, quella con la P maiuscola, porterò gli stessi ideali con cui ho fatto il magistrato, accompagnato dalla medesima sete di giustizia, i miei ideali e valori di sempre (dai tempi della scuola) saranno il faro del nuovo percorso che ho intrapreso. Darò il mio contributo affinchè i diritti e la giustizia possano affermarsi sempre di più e chi soffre possa utilizzarmi come strumento per far sentire la sua voce.
E’ per questo che, con grande serenità, mi dimetto dall’Ordine giudiziario, dal lavoro più bello che avrei potuto fare, nella consapevolezza che non mi sarebbe più consentito esercitarlo dopo il mandato politico. Lo faccio con un ulteriore impegno: quello di fare in modo che ciò che è successo a me non accada mai più a nessuno e che tanti giovani indossino la toga non con la mentalità burocratica e conformista magistralmente descritta da Piero Calamandrei nel secolo scorso, come vorrebbe il sistema di potere consolidato, ma con la Costituzione della Repubblica nel cuore e nella mente. "
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